Radio Freccia

Appena maggiorenne,
un filo sottile mi legava ancora a quello stato adolescenziale, che tagliato mi avrebbe fatto diventare una donna e nell’attesa la musica ricopriva, come ancora oggi, un ruolo importante nella mia vita accompagnandone momenti belli e meno belli, scandendone rigorosamente gli attimi.
In quegli anni Luciano Ligabue “condizionava la mia anima”, avevo vissuto al massimo in “certe notti”e avevo conosciuto Mario, che per me ed i miei amici  non aveva mai chiuso il suo Bar.
Luciano era lì, quando mi sentivo una “piccola stella senza cielo”, in balia dell’ignoto futuro sostenendomi e dandomi la forza di non spegnere la mia luce.
Era il 1998, la vita seguiva il suo corso, scelte, cambiamenti, inadeguatezza, ribellione ed una folle necessità di credere di poter fare tutto ciò che si desiderava.
Volevo credere.
Come il protagonista del film “Radio Freccia”, Ivan Benassi, iniziai ad avere la necessità di non credere a tutto ciò che mi dicevano, ma a tutto ciò in cui volevo.
Proprio in quei giorni, dopo aver visto il film, Antonio ed io ci incontrammo per bere una birra al Maracanà, un pub che da tempo era il nostro punto di ritrovo, dopo un pò di chiacchiere, risate e temi che alludevano ai massimi sistemi, l’uomo ed il fuoco, l’invenzione della ruota, cogito ergo sum, mi consegnò un pezzetto di carta, almeno quello che mi era sembrato a prima vista.
Era un biglietto ripiegato più volte su se stesso, su di un lato presentava una scritta in verde,

” x Raffa”.

I nostri sguardi si incrociarono, i nostri visi non celavano la curiosità e attesa di reazione.
Iniziai a dispiegare il foglio a quadretti, che man mano prendeva la sua forma naturale. Le prime macchie di inchiostro, questa volta blu, iniziavano a trasparire dalla carta.
Era scritto a mano, con quella grafia piccola e precisa che avrei riconosciuto tra mille altre.
In alto a destra una data” Ottobre 1998 ore 3.48 AM”. Antonio sapeva perfettamente quanto amassi quei piccoli gesti più di qualsiasi altra cosa, a prescindere dal contenuto, lo ritenevo un gesto di grande attenzione, di calore.
Un altro sguardo sul suo viso, l’angolo destro delle bocca era tirato un pò verso l’alto, come se si stesse accingendo ad un sorriso.
Iniziai a leggere.
I miei occhi scorrevano tra quelle righe, assaporando ogni lettera, ogni parola, ogni pausa.
Quelle parole nella mia mente risuonavano come dolci note, mescolate a toni di rock progressive.
Terminai la lettura dopo qualche minuto.
La riflessione.
Il silenzio.
Un sospiro ed uno sguardo di gratitudine a quel sorriso non più nascosto.
Sono trascorsi tanti anni, 18, quel biglietto è riposto gelosamente nel mio portafoglio, un pò consumato dal tempo, qualche parola sbiadita…ma nulla potrà cambiarne il contenuto.
Ispirato dal film, Antonio mi aveva raccontato, scrivendole su quel biglietto, le cose in cui voleva credere, non importava se avessero senso o meno, bisognava credere in quel che si voleva…..

” Ottobre 1998 ore 3.48AM”

 Adattato per Noi

“Credo nei sogni, negli urli in testa, nella puzza di benzina, nella coca-cola, nella sincerità, nelle chiavi dimenticate a casa, in quelle che cerchi continuamente nella borsa.                                                                                                                                 Credo nelle cose provate e mai dette, nelle cose dette e mai provate, nei bordi dei cuscini, nei vecchi jeans 501, nella sveglia che suona al mattino, nelle scelte sbagliate, nelle strade percorse, nelle stelle cadenti, nelle apparenze, nei tacchi a spillo, nel mare, nei Simpson.
Credo nei Vampiri.
Credo nelle fottutissime illusioni, nei sogni nel cassetto, nell’acqua che sa di cloro. Credo nei brividi di due mignoli che si intrecciano, nel rispetto, nei falsi sorrisi, in Dylan Dog, nel pavimento fresco d’estate.
Credo nell’amicizia di mia sorella, quella vera pura, senza condizioni, ne competizione. Credo nel tramonto estivo, nella pioggia che nasconde le lacrime, negli occhi di mio padre, nella bellezza, nell’abbraccio di un bambino.Credo nelle cose strane, nell’affanno di un respiro ricco d’amore, credo in te, credo in me, credo nel futuro, credo nella passione,

Credo nell’Amore.”
Raf
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Nuovo Anno

Il nuovo anno, una nuova agenda, una nuova penna.

Con la canzone di Lucio Dalla “l’anno che verrà”, che per me è ormai inno ufficiale per accogliere i nuovi 365 giorni, ecco gli oggetti che mi ricordano che il nuovo anno è arrivato. Oggetti normali a vedersi, utensili da lavoro (è così che mi piace definirli), immobili, senza vita…

Almeno era quello che credevo…  ma l’apparenza inganna. Quei due oggetti dediti a segnare impegni, orari, incassi, budget, numeri di telefono, a scaricare la tensione colorando le pagine immacolate con kg e kg di inchiostro, allo scoccare delle ore 00.00 del 31/12  si trasformano, si animano … prendono vita…

Come è possibile?

Ebbene quei piccoli oggetti  diventano una costante della mia giornata,  un’ossessione, ovunque volge il mio sguardo, sono lì a fissarmi in attesa, sul comodino accanto al letto , sulla scrivania, sul tavolo della cucina, sul pianoforte, in terrazza durante un minuto di relax, perfino in bagno…diventano il mio incubo. Quando rientravo in casa mi chiedevo cosa avessero fatto in  mia assenza se avessero fatto baldoria o se avessero soltanto fatto nuove conoscenze con la nuova “bic” o con il nuovo calendario. I mostri nella mia mente mi conducevano a pensieri folli…
Il 6 gennaio pronta per ritornare a Roma, non perché io avessi finito il turno da Befana, ma semplicemente perché terminate le vacanze si ritorna alla quotidianità dell’ufficio, dai meandri piu’ oscuri di casa, un urlo disperato di mia madre raggiunge le mie orecchie e il suo viso riempie i miei occhi, sembra tanto quello del gatto con gli Stivali del film” Shrek”, gli occhioni di chi ha capito che un tizio di una delle tante serie televisive è morto a causa della sua stessa madre, ma resusciterà presto… e l’agenda aperta nella pagina di copertina…: “ma che, nun me scritt a dedic e bon augurji”.

Non ho scritto la dedica?! Non Ho scritto la dedica di buon auspicio! Ecco perché agenda e penna mi seguono.

Sono anni che mia madre segue questo rito. L’agenda spesso è stata trasportata anche a Roma…nulla poteva impedirle di raggiungermi. Dovevo necessariamente inaugurare la prima pagina  della sua agenda con una dedica perché di buon auspicio.

Questo nuovo anno cara mamma ti stupirò, non avrai bisogno di inseguirmi, ecco la tua dedica per la tua nuova agenda.

“Arriva un nuovo anno straniero, ancora, ma non per molto.

Tutto inizia sempre per trasformarsi in qualcosa di diverso, di più grande, di più maestoso.

Tu hai la capacità di creare, di trasformare tutto a tuo piacimento.

Hai la forza propria solo ad una madre.

Hai l’energia della tua terra nel tuo sangue.

Il sole accompagna le tue giornate, ti farà da guida sempre.

A volte potresti essere stanca,  sfinita, ma l’abbraccio dei tuoi nipoti ti darà nuovo vigore.

Non rammaricarti di non aver potuto fare di più, lo hai già fatto.

Non dimenticare mai da dove sei partita e dove sei ora grazie alla sola tua tenacia.

Non rimproverarti di avere due figlie un po’ stronze, due figlie diverse, una dedita alla famiglia, l’altra in balia dei sogni.

Le hai cresciute bene, la vita non è sempre così educata, hai fatto un buon lavoro, faticoso , intenso ma ottimo lavoro.

Nonostante tutto non hai mai mollato e so che non lo farai mai.

Il tuo animo generoso, indistruttibile quanto fragile sarà il tuo punto di forza.

Ti auguro di essere più serena, anche la tua gastrite ne sarà felice.

Non ti chiederò di fare tanti soldi, come in passato, quelli che abbiamo per fortuna ci bastano.

Ti auguro per questo nuovo anno di pensare un po’ più a te, di darti più tempo, più spazio, il tempo perso non ritorna.

Ti auguro di sentirti amata, anche se spesso non ti sarà dimostrato, ma il tuo cuore lo saprà sempre.

Ti auguro di essere sempre orgogliosa di ciò che sei.

Ti auguro di rientrare la sera orgogliosa del tuo operato, e di poggiare leggera la testa sul cuscino.

Ti auguro di non smettere mai di sorridere!

Buon lavoro”.

Raf

o.e.p.s
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ps. In agenda segna che il sabato non lavoro,  Non Chiamarmi all’alba!
ps: ora stampa e incolla almeno non dovrai inseguirmi per tutta casa.

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Due anime – Una storia. (fine)


Raccolgo la forza rimasta e mi dirigo verso l’altro fratello coinvolto.

La scena che mi trovo davanti è terrificante.

Purtroppo non c’è più nulla da fare, solo recuperare il corpo senza vita con rispetto e dignità.

Forse il compito più difficile.

E’ il momento di prendere il “sacco nero”, tenuto scaramanticamente sul fondo dello zaino, con la speranza di non averlo mai dovuto usare, con grande difficoltà nella ricomposizione del corpo tiro su la lampo del sacco. Aiutato da tutto il gruppo , appoggiamo il corpo sulla barella e rimaniamo in attesa dell’ elicottero che lo avrebbe portato via.

Il mio cellulare squilla continuamente ed ora tocca a me tranquillizzare gli altri sebbene  io no fossi per nulla tranquilla. Con il sorriso spiego a chi me lo chiede che è tutto a posto, il Maresciallo mi avrebbe chiamata da li a poco e che sarebbe stata mia premura avvertire tutti.

L’ansia non era controllabile, mi buttai sul divano in lacrime, guardando il soffitto cercando di pensare che era tutto ok, che il maresciallo mi avrebbe chiamata presto , che avrei sentito la sua voce presto.

Dal  luogo dell’esplosione fino all’elicottero organizziamo un picchetto per rendere onore a quel ragazzo di soli 26 anni che ha dato la vita per il lavoro che ha scelto di fare, e per una terra devastata dalla guerra, per una popolazione che aveva dimostrato di apprezzare il suo aiuto, ma che gli aveva tolto la vita. La salma viene portata via. Per noi non c’ è un attimo di sosta. Iniziano gli accertamenti sul posto.

Passano ore e come un flash back di un film tutto inizia a scorrere nella tua mente. Tutto quello che è successo tutto quello che hai fatto o che avresti potuto fare. Pensi a casa. Erano nove ore che i tuoi familiari non avevano notizie. Inerme. Isolato dal mondo.

Richiamai il centralino. Il colonnello con la sua voce calma e pacata, mi fece capire che purtroppo c’ ‘erano state delle perdite, che il Maresciallo si era comportato bene, gli altri ragazzi sarebbero rientrati presto. Un tempo infinito era trascorso.

Il rientro è stato infinito.

Ora di cena. Ma non ti importa, ancora non realizzi quello che è successo, sembrava non reale.

Alla domanda: ”Marescia’ come stai?” 

“Non Lo so”.

Il mio pensiero ora era tranquillizzare Raf sapeva che sarei stato fuori per svolgere delle attività, ma non avevo mai tardato così tanto nel chiamarla..

Il colonnello mi aveva riferito che aveva avuto modo di sentirla più volte durante  svariate telefonate. Volevo chiamarla al più  presto, ma prima una telefonata, che  nonostante tutto, mi riempì’ il cuore di una gioia malinconica: “Grazie per quello che hai fatto”, mio fratello ferito mi chiamò dall’ospedale in cui era stato trasportato.

Finalmente riesco a parlare con Raffaela.

Finalmente il telefono squilla. “Hey come stai?”, la gioia era talmente tanta che non riuscivo a parlare.

Poche parole, troppe le emozioni, impossibile metterle insieme.

“Come stai? Tutto bene? Che cazzo è successo? “

“Tutto bene”.

Parlami! Continuai a fare domande a raffica, ma poi mi resi conto che dovevo rispettare quel momento . Il mio maresciallo stava bene, quando avrebbe voluto sarebbe stato lui a parlarmi di tutto.

Non riuscivo a rispondere alle sue domande.  Non in quel momento almeno. Il mio stato d’animo era confuso e mi resi conto che forse nessuno avrebbe potuto capire.

Le ore 21.00 circa in Italia e la giornata era quasi terminata. Avrei voluto prendere il primo volo e raggiungere la base a Bakwa per abbracciarti e dirti che sarebbe andato tutto bene. Il mio cuore era li con te e con tutti i tuoi fratelli.

Il giorno era giunto al termine, bisognava riposare, l’alba era vicina e nuove attività sarebbero iniziate nuovamente.

Tutti sapevamo che quelle scene e quelle immagini nessuno avrebbe potuto cancellarle dalle nostre menti, sarebbero state sempre con noi.

Qualche giorno dopo ci furono i funerali di stato a Roma, non potevo mancare. Al telefono mi hai detto:

“Mi raccomando salutalo da parte mia”.

Ricordo i tuoi occhi al tuo rientro. Vedevo immagini che non avevo vissuto. Seduti sulla panchina di Viale Marconi.

I tuoi occhi non avevano bisogno di parole.

Raf
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Due anime – Una storia. (II parte)

Spari e ancora spari.

Il cuore ti esce dal petto, il respiro concitato, nella mente tutto scorre ma devi pensare velocemente, riassestare i battiti ed il tuo respiro, sei stato addestrato per mantenere lucidità e freddezza. Devi contribuire a portare a casa la tua famiglia.

Rientrata a casa, tirai giù tutte le serrande affinché il sole potesse rimanere fuori, sfinita come se avessi corso delle ore mi lanciai sul divano, occhi al soffitto.

Comunicazione radio:

”Colonna in sicurezza, Maresciallo puoi intervenire!”
Devo intervenire ed in fretta, mettere in pratica tutta la mia professionalità ed esperienza. I miei fratelli hanno bisogno di me.

Non avevo fame, rimasi sul divano a guardare il soffitto per un po’ a godere della piccola brezza che attraversava le serrande.

Mi accinsi, con il giubbetto antiproiettile indossato, elmetto, fucile e zaino per il primo soccorso, ad uscire dal mezzo (in condizioni di calma si fa veramente fatica a muoversi) , la mia forza sembrava non avere limiti,  il peso assente, la fatica scomparsa.

Respiro e strani pensieri frullano nella testa…

Mi dirigo verso il luogo dell’esplosione. Vedo un corpo a terra, difficile da riconoscere, probabilmente balzato fuori dal mezzo distrutto dalla deflagrazione. Le sue condizioni non sono compatibili con la vita, nessun respiro in quel corpo martoriato da schegge e sabbia. Non posso fermarmi. Nessuna emozione mi è concessa.

Accendo e spengo la tv, mi dà noia , nulla di interessante. Decido di fare una doccia e accompagno quel momento da “Aria“ di Allevi.

Un urlo disperato attira la mia attenzione,  vedo un uomo girare su se stesso come una trottola in preda ad un forte dolore, avvolto da un polverone. Lo sento tossire. Ha bisogno di me. Lo raggiungo, gli faccio sentire la mia presenza, è al sicuro ora, ma soffre per il  dolore al torace e alla gamba. Lui è confuso,  lo tranquillizzo ed intanto cerco di capire la gravità delle lesioni. Lui si fida di me, pensa che io sia l’unica persona in grado di poterlo aiutare. Mette la sua vita nelle mie mani.

Quella giornata era strana, calda, non sapeva di buono, continuavo a sentire uno strano malessere, ma non ne capivo il motivo. Decisi di chiamare il mio Maresciallo. Sapevo che era andato fuori per delle attività, succedeva spesso. Composi il numero. Il centralino non riusciva a mettersi in contatto con la base: “Signorina non prendono la telefonata”“Ok grazie riprovo più tardi”. “Non sono ancora rientrati” pensai.

Dopo le prime valutazioni attuo le procedure di primo soccorso. Intanto gli altri continuavano a mantenere la zona in sicurezza e avevano allertato l’elicottero, che arrivò dopo poco.

La musica di Allevi fu interrotta da una telefonata di mio cognato.

“Ma come si chiama il posto dove sta il Maresciallo?”.

“Bakwa perché?”

“Cazzo! Un mezzo è esploso ci sono dei morti e dei feriti, hai sentito la notizia?”.

Cercai di mettere in fila i pensieri e capire cosa stesse succedendo esattamente: ”Non ho sentito nulla”.

Chiusi la telefonata e ricomposi il numero del centralino.

“Si attenda”..

“Salve Colonnello sono la compagna del Maresciallo, che succede e non mi dica cavolate”.

“Signorina si calmi non si preoccupi è tutto ok, stanno rientrando”.

“Senta io capisco che Lei deve tranquillizzare le persone ma così ottiene l’effetto opposto”.

“Non si preoccupi chiami più tardi parlerà lei stessa con il Maresciallo”.

Quelle parole entrarono nel sangue, come l’acqua che ti disseta nel deserto.
Era ferito, lo immobilizzo sulla barella e con cautela lo trasportiamo all’interno dell’elicottero che intanto era atterrato non lontano dal luogo dell’esplosione.

“Voglio vedere il mio compagno, come sta?” mi chiese, il mio cuore stretto in una morsa:

”Non c’ è tempo, non ha senso , ricordalo sorridente”.

L’elicottero decollò trasportandolo nell’ospedale da campo più vicino.

Internet ed i vari Mass Media iniziarono a dare le prime notizie, anche se il maresciallo mi aveva sempre detto che la maggior parte delle volte non hanno la notizia certa e completa. Non m’importava, cercavo di capire cosa fosse successo. Iniziarono anche a spuntare dei nomi…quello del maresciallo non  c’era, ma questo non mi tranquillizzava. Credo fossero le 17.30. Non avevo ancora notizie.

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Due anime – Una storia.

Aprile.

Aeroporto di Fiumicino.
Un abbraccio, uno sguardo ed il motore di un aereo che ti avrebbe allontanato dai tuoi affetti, da me, dall’Italia per qualche mese. Isaf, così la missione si chiamava. Gli italiani dovevano dare il loro supporto a quelle popolazioni in Afganistan devastate da anni di guerra.
“Questa è la collana della nonna, sai quanto sia importante per me, ti porterà fortuna, è solo un prestito devi riportarmela, stai attento , non farti ammazzare”.
Un sorriso e vidi la tua schiena scomparire.
I giorni passavano lenti.
Sembrava un giorno qualunque di una calda estate romana. Il mio umore, nonostante il sole riscaldasse la mia casa, non era positivo. Ero arrabbiata e nervosa, non me ne spiegavo il motivo.
Era domenica.

E’ un’altra domenica mattina. La sveglia fissata all’alba come tutte le mattine. Il giorno prima durante il briefing, con tutto il mio gruppo, si erano stabilite le attività da svolgere, come muoversi , eventuali pericoli o minacce. Tutto pronto, si ride, si scherza con quella che è diventata la tua famiglia, i tuoi fratelli, le tue sorelle.

Una mattinata trascorsa tra faccende casalinghe e qualche telefonata.

Le attività che svolgevamo duravano dalle 10 alle 12 ore al giorno, le temperature oscillavano dai 30 ai 40 gradi, l’acqua fresca diventava un dono di Dio in quel deserto.

Non riuscivo a stare ferma , decisi di andare a fare una passeggiata, mi recai ai giardini della Basilica di San Paolo, portai con me un libro, dell’acqua e la musica.

Avevamo svolto tutte le nostre attività, tutto era andato secondo la programmazione, tutto perfetto, potevamo tornare alla Base. Stanchi fisicamente e mentalmente, le ultime energie provenivano dalla voglia di rientrare finalmente dopo una lunga intensa giornata.

Ci sono dei posti in cui ritrovo la serenità e uno di questi è proprio il giardino della Basilica di San Paolo. Avevo portato con me un telo, che appoggiai a terra sotto uno di quei meravigliosi alberi. Un po’ in disparte dalla confusione dei ragazzini e delle giostre. Respirai profondamente cercando di scrollare via quella strana tensione. I Dire Straits accompagnavano quel momento con “Juliet”.

Il percorso per rientrare cambiava ogni volta, in modo da non concedere punti di riferimento fissi. Non si vedeva nessuno solo noi, il deserto e la sabbia. Ogni mezzo doveva seguire le impronte del mezzo che lo precedeva. Durante il percorso alti dossi, avvallamenti, un fiume di sabbia che bisognava attraversare.

I miei occhi di tanto in tanto si poggiavano tra i rami dell’albero che gentilmente mi aveva permesso di appoggiare la schiena, ed i raggi del sole penetravano a tratti, a volte erano nascosti dal movimento delle foglie spostate dalla leggera brezza, creando così un gioco di ombre e luci che mi divertiva molto. Ora l’ipod mi regalò “ Forgiveness” di Elisa and Anthony .

I primi due mezzi attraversano quel fiume , è il mio turno sono il terzo in colonna, risaliti i bordi restiamo in attesa dell’ultimo mezzo dietro di noi. Un istante ed un botto fortissimo, il mezzo su cui siamo si sposta, lo sguardo di terrore con il mio compagno e lo specchietto retrovisore non mostra che un’enorme polverone.

Il tempo sembrava passare lento, invece era ora di pranzo, era tempo di rientrare, raccolsi le mie cose e mi incamminai per tornare a casa…il sole era ancora più caldo, mi soffermai sul ponte Marconi attirata dalle sfumature del sole sull’acqua ed i gabbiani che tentavano di rinfrescarsi….un forte capogiro , era caldo dovevo rientrare.

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Raf

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Tradizioni – Fratiell e Surell

Si narra in un tempo lontano, quando le stelle erano ancora visibili, che in una notte di dicembre il mare arrabbiato tentò di inghiottire dei pescatori.
Molti riuscirono a salvarsi tornando nel porto, uno solo rimase in balia delle onde. Il pescatore, sentendosi perso, affidò la sua vita nella mani della Madonna. Improvvisamente il pescatore fu abbagliato da una luce immensa e si ritrovò sulla spiaggia tramortito. Non appena riprese i sensi chiamò a raccolta tutti i suoi compagni: “Fratiell e surell a Maronn me salvat”, appicciamm o fuoc scalfammc e dicimm o rusarij” (Fratelli, sorelle, la Madonna mi ha salvato accendiamo il fuoco scaldiamoci e diciamo il rosario).
 
Da questa meravigliosa leggenda nasce una meravigliosa tradizione, tramandata di padre in figlio. La notte del 7 dicembre vengono accesi, in vari quartieri della mia città, i falò dell’Immacolata Concezione, per noi Stabiesi detti “fucaracchi”, accompagnati dalla voce di un uomo votivo che chiama a raccolta tutti i fedeli alla preghiera (proprio come il pescatore che aveva avuto salva la vita): “Fratiell e surell o nome ra maronn chest è a primma stella”.
Il rito inizia nella notte del 26 novembre fino ad arrivare alla dodicesima notte (12 notti quante le stelle sul capo della Madonna) quella appunto del 7 dicembre, alla fine della quale si suona, si festeggia e si ammirano i fuochi. In casa Anastasio si sentiva molto questa tradizione.
 
 
Tutto pronto, Presepe e Albero di Natale. La casa era un tripudio di lucine e profumi natalizi. Appuntamento annuale con struffoli, roccoco’, “pullc e monac” e mustacciuoli, dolci della tradizione natalizia napoletana. Il campanello suonava senza sosta e la casa si riempiva di “famiglia”. I maschietti in cucina a giocare a “tresette” e le donne in soggiorno a chiacchierare,  o meglio a fare “du’ n’ inciuc”, spettegolavano su questo o su quello.
Una voce radunava tutti però: “Jia pjamm a tombol” (su forza prendiamo la tombola).
 
Tutti vicini intorno al tavolo, iniziava la meticolosa scelta delle cartelle, eh già era fondamentale, c’erano quelle fortunate e quelle meno, almeno così dicevano.
Bottoni, placchettine di metallo, buccie di arancia, tutto sparso sul tavolo per coprire i numeri. Dopo aver sistemato le cartelle e raccolto i soldi distribuiti sui vari premi, (3 cartelle costavano rigorosamente 100 lire), ad iniziare il gioco con il cartellone era lui , l’inimitabile zio Ettore, che con il suo mignolo decorato con un anello d’oro a forma di serpente con un  diamantino come occhio, la catenina con un bel crocifisso per nulla modesto, (oggi un personaggio della serie “Gomorra”), iniziava ad estrarre i numeri dal cestello dopo averlo fatto roteare più e più volte. Il tutto era accompagnato da riti scaramantici, frasi improbabili e suoni discutibili.
Lo show aveva inizio.
Zio Ettore aveva la capacità di creare il panico per le risate, i numeri venivano declamati, raccontati, spesso detti anche in una lingua, che zio insisteva a chiamare inglese, ma vi garantisco non lo era affatto, era più stabiese mozzicato di un cane in corsa…spero di aver reso l’idea.
I numeri più attesi e più gettonati erano il 33 perché associato agli anni di Cristo, 55 la musica, 71 “o’ malament” dice la smorfia, un poco di buono, ma da noi rende di più con “Homme e merd”, ovviamente noi tutti indicavamo zio con quell’accezione. Era divertente.
Il numero invece, che scatenava l’ilarità in tutti noi era il numero 88. Questo numero per forma assomiglia ad una coppia di provoloni ed i provoloni sono associati al seno della donna.                                                                          La vittima consapevole del paragone del suo seno prosperoso con i provoloni era (è) zia Dina, che subiva le simpatiche angherie di zio Ettore quando l’88 veniva fuori dal cestino:
 
“Uè e billoc e stavat aspettann hann arrivat …zia Di, song e tuoij Signori e Signore i provoloni di zia Dina”…
(Eccoli li stavate aspettando, sono arrivati, zia Dina, sono i tuoi Signori e Signore i provoloni di zia Dina)
La casa era teatro naturale di commedie che venivano scritte in quell’arco di tempo determinato dall’attesa del passaggio di “fratiell e sorell”.
Tra un terno e l’altro, un caffè e l’altro, un sette e mezzo, un mercante in fiera, la voce di “fratiell e surell” piombava dentro casa, accompagnata da petardi e dall’orchestra. Infilati velocemente i cappotti, sciarpe e cappelli, si raggiungeva la voce votiva.
Una folla di fedeli al seguito, ”fratiell e surell” decantava l’ultima stella della Madonna”.
Ragazzini lanciavano petardi, l’orchestra era composta da pochi elementi tra i quali spiccava “O’ Zampugnar” che suonava brani natalizi. Era affascinante seguire quel gruppo di persone, che erano lì non come noi ragazzini per curiosità di vedere il mondo di notte, ma per devozione, per fede. Ognuna di quelle persone chiedeva qualcosa o aveva già ricevuto qualcosa e aveva trascorso 12 notti in quel percorso per ringraziare la Madonna.
Per noi il percorso era breve e durante il tragitto qualche falò schioppettava, emanava calore e luce.
 
 
Erano le 6 quando si tornava a casa, dopo aver assistito alla celebrazione della Santa Messa, con un occhio chiuso e l’altro aperto.
Quegli anni tutto ero diverso
tutto sapeva di buono
di famiglia.
 
 
 
 
 
 
Raf
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Un pensiero tra le dita

Uno sguardo oltre e
quanta felicità;
quante lacrime;
quanti dubbi;
quanta sofferenza;
quanta follia;
quante persone transitate e scomparse;
quante persone incontrate e rimaste;
quante parole dette;
quanta gioia ricevuta con una sola carezza, un solo abbraccio, un solo, unico contatto;
quanti sorrisi donati;
quanto stupore, quanta meraviglia nei miei occhi;
quanta rabbia in una lacrima;
quanti sguardi;
quanti silenzi;
quanti pensieri impigliati tra quelle rughe;
quanti successi;
quante altre Me ho incontrato e conosciuto;
quanta terra nel mio sangue.
Un unico percorso, più strade intraprese, non ho mai capito quale fosse quella giusta per me, o forse si, non so, intanto viaggio.
La mia vita, tutto qua!
 
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Raf
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Adolescenza

Il senso di impotenza spesso ti attanaglia  e crea una sorta di vuoto immenso, un vuoto che ti riempie, quel vuoto va colmato e svuotato in qualche modo.
Spesso ci si presentano delle situazioni alle quali non siamo pronti, perché non ancora strutturati, perché non siamo preparati, non c’ è esperienza e cerchiamo di proteggerci, in qualche modo.
Un po’ come quando il nostro corpo reagisce ad elementi simili riconoscendoli come non buoni e crea anticorpi ad anticorpi, ecco, diciamo che alcune situazioni che ci causano sofferenza sono così.
Creiamo una sorta di Autoimmunità. Indossiamo una corazza, iniziamo a difenderci dai noi stessi.

Gioia, le sue parole, il mio racconto.

Cucina, un tavolo che  aveva unito durante pranzi di Natale, festeggiato promozioni e anniversari, accolto lacrime di gioia e di tristezza, anni di felicità, un matrimonio, due figli, ora  era un muro.
Susy da un lato, Cris dall’altro,  ora erano divisi da quel tavolo.

“Non  possiamo stare più insieme, le nostre strade devono prendere direzioni diverse”.

Come in un cartone animato un macigno crollò sulla testa di Gioia e quella di suo fratello, un lutto raccontato da Malik, fuochi, vulcani in attività, tempeste. Tutto questo non traspariva dai loro visi.

“Va bene allora cosa vogliamo fare, decidiamo insieme”, Gioia si espose.

Il suo istinto la  guidava, come se qualcuno le avesse assegnato un ruolo, quello da mediatrice, affinché tutto potesse placarsi.
Ma l’amore fa presto a trasformarsi in odio, per difesa, difesa al dolore, alla sofferenza, anche l’odio fu accolto  a quel tavolo.
Il senso di impotenza per alleviare il dolore, i punti interrogativi posti dalla ragione non ebbero mai risposta.
Sommersa da un’onda di responsabilità  nei confronti di due persone che le avevano dato la vita, si sentiì impotente, no aveva nulla per sanare quelle ferite che sapeva, avrebbero sanguinato a lungo.
La sua forza? Suo fratello, più istintivo, più reattivo, bel caratterino lui. Volevano essere saggi, razionali.

I giorni passavano e cercavano di tenere tutto all’interno dei muri di casa.
Cercavano di mantenere il controllo, ma non vedevano l’ora di perderlo, lui tra le braccia della metà del suo cuore e lei?
Gioia In compagnia della  tazza del cesso. Era troppo piena di sensazioni ed emozioni contrastanti ed era incazzata, doveva svuotarsi.
Era quasi diventato un rito.
Andava a fare la spesa, tutto ciò che comprendeva cibo inutile lo comprava… correva con il motorino, cercava un luogo appartato dove però potesse vedere il mare e inghiottiva, mangiava  con voracità, patatine , crostatine, non lasciava il luogo se non aveva divorato tutto. L’istante subito dopo salutava il mare, indossava il casco e rientrava a casa.
Diretta in bagno, lavava le mani, legava i capelli, sollevava il copri water, puliva anche quello e di nuovo lavava le mani, lasciando questa volta il rubinetto aperto, per coprire eventuali rumori.
Un lungo sospiro, il dito indice ed il medio andavano ad esplorare cavità sconosciute, per una due o tre volte fin quando un’onda di poltiglia non si faceva spazio tra i canali, e l’acidità riempiva la bocca.
Gioia ripeteva il rito più volte fino quando nessuna poltiglia o pezzi  di cibo venissero in bocca, ma solo liquidi. Era il suo segnale. Poteva bastare.
Sfinita, spingeva lo scarico, controllava che non ci fossero residui nel water, e poi si fermava allo specchio, il viso violaceo per lo sforzo, capillari sanguinanti negli occhi rossi, pieni di lacrime.
Lavava i denti, rinfrescava il viso e poi si lasciava andare a terra per qualche minuto affinchè potesse recuperare il suo colorito naturale ed il suo respiro.
Gioia si sentiva soddisfatta, più leggera e meno in colpa.
Mentre le diatribe familiari continuavano ad andare avanti, verso una soluzione definitiva, Gioia credeva di sostenere il mondo, e non rinunciava al suo rito per sentirsi apparentemente meglio.

Un giorno però qualcosa andò storto. Suo fratello si accorse che qualcosa non andava, con lo sguardo arrabbiato prese Gioia per un braccio, e disse:

”Che cosa pensi di fare? Vuoi diventare bulimica, molti non tornano più indietro lo sai vero? Parlami! Non fare cazzate!”

Gioia scoppiò in lacrime, non voleva dare altre sofferenze alla persona più importante della sua vita, la sua forza.
Il dolore, la sofferenza, il senso di colpa, il senso di impotenza, la paura, senso di smarrimento, correvano sul viso una dietro l’altra. Lacrima dopo lacrima.

Ho rivisto Gioia qualche tempo fa, il suo sorriso illumina il sole, è cresciuta, è una donna ora.

“Raf ci sono cose che il tempo non cancella, ma ne sono felice, perché ho bisogno di attingere da quell’esperienza, nei momenti di difficoltà, per ricordare che io sono la donna che vedi anche perché ho superato quei dolori, quelle sofferenze, credimi non si muore, si cresce, si diventa adulti, a volte anche saggi più dei propri genitori,  anche questo mi sta bene, noi siamo i loro occhi ora e ho imparato a non dimenticare di sorridere, proprio come dici tu.”

Don’t forget to smile
Raf

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Antica Babilonia

Ore 8.45 la mattina del 12 novembre alla radio:
“Due veicoli carichi di esplosivo lanciati contro la base militare italiana , una sparatoria. Circa 20 i feriti molto gravi, a Nassiryia sono le ore 10.40 del mattino”.Ancora:
“Un camion ha forzato il posto di blocco. Un cratere immenso, quattro Kamikaze responsabili della missione suicida. In Iraq strage di italiani”.

In quell’istante la guerra che pensavo fosse lontana, con prepotenza entrò in casa mia.
A Nassiryia due palazzine in cui risiedevano  i militari del contingente italiano in Iraq, per la missione “Antica Babilonia”, sventrate da un attacco Kamikaze.

Fumo, muri che crollavano, sirene di ambulanze, vigili del fuoco, macchie di sangue sul selciato, persone che fuggivano terrorizzate, bambini in preda al panico in lacrime, macerie e distruzione, queste le immagini trasmesse da tutti i notiziari  nazionali.

Fidanzata con Giovanni ex paracadutista del 183° Reggimento Paracadutisti Nembo (nucleo operativo), in quel momento allievo della scuola sottufficiali dell’ esercito, amica storica di due allievi della “Scuola Ufficiali dei Carabinieri”, Antonio e Gennaro, non potevo che essere partecipe, il mio cuore per 3/4 militare, iniziò a pompare terrore nelle vene.

Chiamai immediatamente il mio fidanzato, ovviamente era informato su tutto prima ancora che i giornalisti dessero la notizia. Purtroppo era tutto vero.
Seguivo gli aggiornamenti costantemente.
Appresi che i  funerali solenni  ci sarebbero stati il 18 Novembre presso la Basilica di San Paolo,  per cui sei giorni dopo la strage, l’ultimo saluto alle vittime di un’assurda guerra voluta da altri.
Abitavo in via Nonantola una stradina non molto lontana dalla Basilica di San Paolo, per cui a piedi mi incamminai.
Ero agitata, triste, pensavo e ripensavo al mio fidanzato e ai miei amici , una cosa del genere a loro, non l’avrei mai  potuta superare.
Il 18 novembre, andai a salutare i ragazzi e credo che anche il sole volesse salutarli.
Con il cuore triste e l’animo inquieto raggiunsi i giardini della Basilica, dove nonostante la miriade di persone, regnava la compostezza ed  il silenzio, solo un gruppetto di giovani, accovacciati vicino ad un albero, con la voce strozzata dal pianto, cercava di intonare un'”Alleluja”.
La Basilica era tutta transennata, mi feci spazio tra la folla e liberai la mia visuale.
Alte cariche dell’ Esercito e dell’Arma dei Carabinieri vestiti di tutto punto impartivano ordini … Eh tutti di un pezzo Loro! Fieri delle loro stelline ed i loro nastrini sul petto.
Accanto a me un gruppetto di anziani con uno strano berretto in testa, probabilmente ex militari ma non ho idea di quale fosse il loro reparto di appartenenza. Vederli insieme, così uniti, così orgogliosi, mi rese ancor più fiera di essere italiana.
Le campane iniziarono a suonare.
Rintocchi lenti, secchi quasi senza riverbero.
Un applauso partito da lontano arrivò fino alla mia postazione come un’onda travolgente e la sua voce urlava impetuosa.
19 camion aperti
19 letti di morte
19 bandiere italiane
19 anime

L’appaluso infinito accompagnava le lacrime che nessuno voleva trattenere. Tutti avevano necessità di esprimere la propria tristezza, l’amarezza.
Io, osservatrice, ammutolita, impietrita, davanti ad una realtà cosi’ crudele, quasi irreale, le lacrime sgorgavano disperate scivolando sul mio viso, senza sosta.
I 19 camion sostarono nel cortile, ed i letti di morte furono portati all’interno della Basilica, a spalla, da colleghi e amici che a stento riuscivano a trattenere il proprio dolore.
Uno degli anziani signori con il berretto mi appoggiò una mano sulla spalla e mi disse:
“Coraggio ci vuole solo coraggio!”
Parole di un uomo saggio con gli occhi tristi, chissà  quegli occhi quale altra tragedia avevano dovuto vedere.
19 vite spezzate, ragazzi, mariti, figli, fratelli, amici, strappati alla vita, per supportarne altre di un popolo a cui non appartenevano.
Persone comuni nella loro straordinarietà, persone che hanno sacrificato la loro famiglia, per altre, persone con necessità differenti, con dei sogni, con delle speranze.
Persone con una coscienza.
A loro è stata dedicata  una scultura “La foresta d’acciaio”  nei giardini della Basilica di San Paolo;

Pilastri di metallo,  freddi, come  i proiettili ghiacciati, come le menti malate degli attentatori, privi di anima come una guerra senza senso. Questo è rimasto di loro. Questo il valore che è stato concesso.
Sospiri eterei, anime danzanti tra le nuvole, sorrisi del sole , ecco a me piace immaginarli così…
Don’t forget to smile
Raf
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Lettera ad uno sconosciuto

Tutto finisce per poi ricominciare.

Quando credi di aver trovato un equilibrio, c’è sempre qualcosa che lo mette in discussione, lo distrugge ma ti da le basi per crearne uno nuovo più forte e duraturo.
Non spaventarti se spesso ti mette alla prova.
La vita è così piena di sorprese.
Non accontentarti.
Non fermarti. Non dimenticare di sorriderle.
Non smettere mai di stupirti. Impara ad apprezzare la sofferenza, perché ti renderà forte.
Impara a gioire dei sorrisi dei bambini, della forza dei loro sguardi, degli abbracci degli amici sinceri, della carezza di tua madre anche se ormai sei più da balera che da club.
La vita è così fugace, ti scivola tra le dita…
Godi di ogni piccolo istante, di ogni piccola emozione.
E’ così dolce sentire. La brezza che ti accarezza la pelle, la tranquillità nel tuo animo, la libertà nel tuo cuore.

Tutto così apparentemente irreale.
I profumi intorno a te penetrano le narici inebriandoti, gli occhi fortunati, si perdono nella magia dei tramonti estivi, il silenzio della notte è tuo complice.
Sogna,insegui il tuo unicorno.
Non nascondere il tuo cuore che urla da tempo, prova ad ascoltarlo..
Dai vita alla follia.
Mostrati così come sei.
Se ti sentirai perso, senza via d’uscita; sappi che c è sempre una via d’uscita.
Potresti perdere ma imparerai per vincere.
Ama, ama alla follia e se non dovesse essere abbastanza ama ancora di più.

Vivi del respiro del tuo amore, vivi per te e per il suo cuore, non tirarti mai indietro, anche se fa paura.
Sentile, vivile, dà loro un nome e saranno tue per sempre, le emozioni.
Piangi, sorridi, urla, ridi, gioisci, soffri, incazzati, odia, senti, Ama…
Vivi!

Dont’ forget to smile
Raf

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